I vescovi
Nota storica[1]
Il principio della collegialità fu utilizzato da alcuni padri conciliari per giustificare un uso più ampio della conferenza episcopale. Monsignor Carli, in un influente discorso, dimostrò tuttavia che in tali conferenze mancavano “i tre elementi che sembrano essere essenziali di quella collegialità” ossia “l’unione di tutti i vescovi[2]; la partecipazione dotata di potere … del capo del collegio, cioè del Romano Pontefice; i temi riguardanti tutta la Chiesa“. Egli fece notare che l’autorità ordinaria e immediata, fin dall’antichità considerata “monarchica”, di ogni singolo vescovo nella propria diocesi sarebbe stata limitata dagli altri vescovi della sua nazione. Già il mese precedente, monsignor de Proença Sigaud aveva avvertito i padri delle restrizioni che tali misure avrebbero imposto ai vescovi (e anche al papa) e monsignor Lefebvre confermò l’affermazione sulla base della sua attività missionaria in Africa.
Analisi dei testi
I) ‘In specie ai nostri tempi, i vescovi spesso sono difficilmente in grado di svolgere in modo adeguato e con frutto il loro ministero, se non realizzano una cooperazione sempre più stretta e concorde con gli altri vescovi …’ [Dopo un riferimento agli effetti fruttuosi delle conferenze già esistenti, seguono le disposizioni per la fondazione di conferenze episcopali ovunque nel mondo] (Christus Dominus 37);
II) ‘Le decisioni della conferenza episcopale [in certe circostanze]… obbligano giuridicamente’ (CD 38.4).
Il potere dato alle conferenze episcopali erode l’insegnamento cattolico circa la gerarchia della Chiesa nei due modi appena indicati, vale a dire:
- deprivando la Santa Sede di una parte della sua autorità[3];
- diminuendo de facto il potere monarchico dei singoli vescovi sulle loro diocesi.
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[1] RdM IV 9.
[2] Qui i padri conciliari si basano illegittimamente sul principio del “grado” o della “gradazione”, che abbiamo esposto nell’Introduzione.
[3] Esempi concreti del conferimento di questa autorità possono essere visti in altre parti del concilio nel caso della concelebrazione (Sacrosanctum Concilium,”SC”, 57, 1.2, 2.1); nel caso delle traduzioni bibliche (SC 36.4, Dei Verbum 25); e in quello della formazione sacerdotale (Optatum Totius 1).