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Ep. VII – Il sacrificio in senso improprio

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Ep. VII - Il sacrificio in senso improprio
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Nella vita religiosa-ascetica diversi sacrifici virtuosi sono spesso chiamati “sacrificio”, in un senso però sostanzialmente diverso dal “Sacrificio”. In tale uso la parola sacrificio non mantiene più il suo significato originale, ma va intesa invece in senso improprio: le opere di virtù sono e si chiamano sacrificio in senso lato.

Il nome ‘sacrificio’ viene infatti usato di frequente per definire opere buone e meritevoli, nella misura però in cui queste abbiano una certa somiglianza e parentela con il vero Sacrificio. Questa somiglianza e parentela consiste soprattutto in due aspetti. Il sacrificio serve a glorificare Dio ed era normalmente compiuto tramite l’annientamento di un oggetto sensibile. Ora, i diversi atti di virtù sono comparabili al Sacrificio nella misura in cui siano intenzionalmente diretti alla gloria di Dio con sentimento sincero e, inoltre, se operano una certa distruzione: cioè la mortificazione della natura corrotta ed egoista dell’uomo.

La vita naturale, bassa, sensuale e terrena, infatti, dev’essere soppressa e vinta, affinché nell’uomo possa svilupparsi pienamente la vita superiore e spirituale della Grazia celeste. “Il chicco di frumento produce molto frutto solo se, caduto in terra, muore” (Gv 12,24). Ma la mortificazione ripugna alla natura, perché esige fatica e sforzo. Perciò, quando si descrivono come sacrificio le singole virtù, come anche la perfetta vita cristiana, si pensa subito all’indispensabile abnegazione e rinuncia necessarie. Ecco alcuni esempi che possono illustrare e confermare quanto detto.

Gli Apostoli chiamano “sacrifici” le offerte caritatevoli, come anche i servizi di misericordia con cui si confortano e rifocillano i poveri; e, nel donare l’elemosina al bisognoso, il cristiano vuole offrire qualcosa a Dio. “Non dimenticate poi la beneficenza e la liberalità, perché di tali sacrifici si compiace Iddio” (Eb 13,16). Lo stesso Apostolo chiama le elemosine, che i cristiani di Filippi gl’inviano, “un profumo amabile, un sacrificio gradito di cui il Signore si compiace”. “Ecco come Egli apprezza l’offerta. Non sono io che l’ho ricevuta – egli dice – ma Dio tramite me. Perciò non fate caso se io non ne ho bisogno; anche Dio non abbisognava di alcuna offerta, ma nondimeno accettò quella di Noè” (Gen 8,21) (Crisostomo).

La rinuncia alle gioie dei sensi, il trattare il corpo con severità e durezza riesce all’uomo assai più pesante che non donare beni naturali e possedimenti economici. Perciò, S. Paolo esorta e scongiura i cristiani per la misericordia di Dio: “Vi esorto, dunque, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi quale sacrificio vivo, santo e gradito a Dio” (Rom 12,1) tramite astinenza e temperanza, come pure costanza nel condurre un’energica lotta contro la sensualità e gl’istinti carnali. “Quando io rinuncio a tutto ciò che possiedo, prendo la mia croce e seguo Cristo, allora compio un sacrificio sull’altare di Dio; oppure, se offro il mio corpo a bruciare per amore e ricevo la corona del martirio, in tal modo offro me stesso in olocausto sull’altare di Dio”.

Un “sacrificio” che Dio non disprezza, ma accetta con benevolenza, è anche uno “spirito umiliato”, “un cuore contrito e umiliato”, cioè lo spirito e il cuore piangono, feriti di amore e con rimorso aborriscono i peccati e le aberrazioni della vita passata (Sal 50,19).

La preghiera è intimamente imparentata e unita al sacrificio; infatti, lo spirito di preghiera e il sentimento del cuore compongono l’essenza interiore, l’anima del rito Sacrificale. Come il sacrificio è chiamato preghiera reale o pratica (oratio realis), così anche la preghiera può essere chiamata a sua volta sacrificio. I profeti descrivono le preghiere di lode e di ringraziamento come “offerta del frutto delle nostre labbra” (Os 14,3). E, riferendosi a ciò, l’Apostolo scrive: “Per mezzo di Lui dunque offriamo di continuo a Dio un sacrificio di lode, con le parole delle nostre labbra, che confessano il Suo Nome” (Eb 13,15). E nei Salmi siamo invitati a “offrire a Dio la lode come sacrificio” (Sal 49,14).

Una vita che si consuma interamente per Dio e per la Sua gloria, nella sofferenza e nel combattimento, nella fatica e nel lavoro, è un “olocausto”. “Come l’oro nel fuoco del forno Dio prova i giusti e li accoglie come un olocausto” (Sap 3,6). “Anche l’uomo consacrato tramite il nome di Dio e offertosi a Dio è un Sacrificio nella misura in cui muore al mondo per vivere in Dio”.

Grande ed eccelso sacrificio soave alla divina Maestà è in special modo la rinuncia e la dedizione delle persone negli ordini religiosi: coi tre voti perenni di povertà, castità e obbedienza, esse rinunciano liberamente e con gioia alla terra e ai suoi beni, al mondo e ai suoi godimenti, per consacrarsi con anima e corpo al servizio di Dio per sempre.

Sacrificio in senso lato fu anche la vita incomparabilmente umile e dolorosa del povero, casto e obbediente Gesù, mentre la Sua morte in croce per la redenzione del mondo è un sacrificio in senso proprio.

Altra cosa è la morte cruenta dei martiri: per quanto sia preziosa agli occhi del Signore, essa non ha tuttavia il carattere di sacrificio in senso proprio. Certamente, i martiri (come canta la Chiesa nell’Ufficio) hanno amato Cristo durante la loro vita e Lo hanno imitato nella loro morte; e di sicuro, per amor di Dio, hanno offerto i loro corpi al supplizio della morte e versato il loro sangue glorioso per il Signore e così ereditato corone eterne. Essi, tuttavia, non erano né sacerdoti sacrificali, né destinati ad essere offerti in sacrificio dando la loro vita per glorificare e riconciliare la divina Maestà, ma piuttosto hanno patito la morte violenta a testimonianza e difesa della verità, santità e divinità della Fede cattolica.

Benché agli occhi del Signore la morte di molti santi sia stata preziosa (Sal 115,15), nessuno di questi innocenti uccisi operò la riconciliazione del mondo. I giusti ricevettero le corone della vittoria, ma non le distribuirono: dalla fortezza dei fedeli uscirono esempi di pazienza, non doni di giustizia”.

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