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Ep. XXXII – Le visioni cattolica e non cattolica

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Ep. XXXII - Le visioni cattolica e non cattolica
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a) La visione cattolica

La Chiesa insegna in effetti che i vescovi, in quanto successori degli Apostoli, sono Pastori e Maestri; e che, come corpo docente della Chiesa (cioè come Collegio e non individualmente nella loro diocesi), godono dell’infallibilità della Chiesa. Ciò avviene nel corso di un concilio generale (o “ecumenico”), quando il papa autorizza il concilio, lo presiede (personalmente o tramite un suo rappresentante), fa partecipare i vescovi alla sua suprema autorità per la durata e gli scopi del concilio e conferma le decisioni che i vescovi hanno preso come successori degli Apostoli con l’intento esplicito di definire le dottrine sulla Fede e sulla morale[1].

b) La visione non cattolica

Il testo (II) si presta ad un’interpretazione non cattolica perché tace la comunicazione del papa di una parte del suo potere all’episcopato ai fini e per la durata del concilio. Il cardinale Browne OP[2] obietta sia alla nozione di partecipazione abituale dei vescovi alla suprema autorità del papa, sia alla nozione che essi ricevano tale partecipazione in virtù della loro consacrazione.

Per quanto riguarda la prima nozione, scrive che il testo (I)[3] attribuisce: “… una certa partecipazione abituale alla suprema e piena autorità di governare la Chiesa universale”. Questi afferma che, sulla base del fatto che tale partecipazione sia data per diritto divino, come si suppone, il papa sarebbe sempre obbligato a consultare il pensiero e la volontà dell’intero episcopato. Ne conseguirebbe che il papa possiede la parte maggiore nel governo della Chiesa universale, ma non l’intera pienezza di questa autorità. Tale posizione è tuttavia condannata dalla Chiesa: “Se qualcuno afferm

Quanto alla seconda nozione, quella della comunicazione dell’autorità tramite consacrazione episcopale, lo stesso cardinale Browne obietta al testo (IV) che: “se, come sembra si voglia supporre, si intende qui il conferimento del potere di insegnare e soprattutto di governare con autorità, ciò non può essere ammesso”[5]. Secondo l’insegnamento della Chiesa preconciliare su questo punto, ogni potere gerarchico subordinato al papa deriva dal papa stesso. Papa Leone XIII afferma[6]: “Se la concessione divina volle che qualche cosa fosse comune a lui (Pietro) con gli altri prìncipi (Apostoli), non concedette esclusivamente a lui quello che non negò agli altri … senza la sua partecipazione”. Il cardinale fa riferimento a tre testi di Papa Pio XII, che insegnano esplicitamente che il potere di giurisdizione è dato ai vescovi non dalla loro consacrazione, ma dal papa[7].

Il testo (V), tratto dalla Nota, pretende di rispondere a quest’ultima obiezione del cardinale, facendo una distinzione tra gli uffici di insegnamento e di governo da una parte, intesi come “partecipazione ontologica alle funzioni sacre” e, dall’altra parte, il potere di esercitare queste funzioni conferito dalla gerarchia. In altre parole, il concilio insegna che il potere di suprema e piena autorità è conferito ai vescovi dalla loro consacrazione, ma che richiede un intervento papale per essere attualizzato. Il concilio sostiene che tale insegnamento sia tradizionale e sulla scorta di esso presume di ribaltare i pronunciamenti papali degli anni precedenti al concilio riguardanti le consacrazioni episcopali irregolari in Cina.

Il testo (V) è problematico in primo luogo perché giurisdizione significa potere: non è un potenziale per acquisire un potere, che richiede il conferimento del potere; in secondo luogo, perché, contraddicendo la Tradizione, come abbiamo visto sopra, non si può affermare che si tratti dell’insegnamento inequivocabile della Tradizione. Il cardinale Dante, in una lunga lettera al papa nella Terza Sessione, si riferiva alla prassi dei vescovi e dei papi, che esercitavano l’autorità anche prima della consacrazione episcopale (prassi riconosciuta dal diritto canonico in vigore all’epoca del concilio), prassi che di per sé sarebbe stata del tutto sufficiente a confutare l’insegnamento conciliare.

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[1] Questo per quanto riguarda il modo straordinario in cui l’episcopato è infallibile; lo è in modo ordinario, nell’esercizio del “magistero ordinario e universale” della Chiesa, quando i vescovi proclamano che siano professate da tutti i fedeli le dottrine cattoliche sulla Fede o sulla morale che sono state sempre professate dai fedeli, e lo fanno all’unanimità tra di loro e in unità morale con il papa. Condividiamo la rispettata opinione teologica secondo cui l’episcopato è infallibile in entrambi i casi nel merito dell’insegnamento in unità con il Papa.

[2] AS III/I, 629; si veda la lezione tenuta da padre Albert Kallio OP alla sessione di studi Vecchio e nuovo modernismo, le radici della crisi della Chiesa del 23 giugno 2018.

[3] Questo si applica allo stesso modo al testo (II).

[4] Tantum potiores partes, non vero totam plenitudinem huius supremae potestatis. AS, concilio Vaticano I.

[5] AS III/I, 630.

[6] «Divina dignatio si quid cum (Petro) commune ceteris voluit esse principibus numquam nisi per ipsum dedit, quidquid aliis non negavit » Satis cognitum, citando papa san Leone Magno, sermo IV, c. 2.

[7] Il Manuale di Hervé chiama questa opinione omnino certam con riferimento alle encicliche di Pio XII, J.M. Hervé, Manuale theologiae dogmaticae, 1962, vol. I, n. 461. Il cardinale Browne corrobora questo insegnamento facendo riferimento a san Tommaso, il quale scrive che le frasi “Pasci i miei agnelli” (Gv 21) e “Io ti darò le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16) mostrano che il potere delle chiavi deve derivare attraverso lui agli altri per conservare l’unità della Chiesa ‘… ut ostenderetur potestas clavium per eum ad alios derivanda, ad conservandam Ecclesiae unitatem’.

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